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Canoni socioculturali della bellezza femminile e Disturbi Alimentari


Disturbi Alimentari e attuali canoni socioculturali della bellezza femminile: l’influenza della pressione culturale in relazione all’esordio di Anoressia e Bulimia

Il presente contributo si pone l’obiettivo di esaminare l’influenza degli attuali canoni socioculturali di bellezza femminile in relazione all’esordio di Anoressia e Bulimia e disturbi alimentari nelle giovani donne.
In tale direzione la trattazione si dipana mediante un breve exsursus relativo al cambiamento avvenuto nel concetto di bellezza durante le differenti epoche storiche, dal periodo Rinascimentale all’Ottocento, dall’inizio Novecento agli anni 2000; bellezza incarnata da corpi dalle forme notevolmente differenti tra loro, dalle formose nobildonne dei secoli passati alle androgine ‘garçonne’ degli anni Venti, dalle maggiorate degli anni Cinquanta fino alle modelle anoressiche degli anni Novanta.
A fronte di ciò, l’argomentazione prosegue evidenziando la rilevanza dei messaggi impliciti comunicati dai mass media rispetto all’insorgenza dei Disturbi Alimentari e si conclude attraverso una descrizione delle principali caratteristiche cliniche presenti nelle forme di disagio considerate.

Il contesto storico-culturale ed il cambiamento dei canoni di bellezza femminile
Fin dall’antichità la bellezza femminile è stata valutata e misurata sulla base di un modello estetico di riferimento, riconosciuto dalla società in un determinato contesto storico e culturale.
Dal modello ideale discendono i canoni estetici, ovvero le caratteristiche tipiche della bellezza.
In tal senso, maggiore è la somiglianza di una donna rispetto ai parametri definiti, maggiormente essa è considerata bella.
Tuttavia, l’ideale estetico non è un criterio assoluto, immutabile, universale, ovvero riconosciuto valido in tutti i tempi ed in tutti i luoghi, viceversa rappresenta una costruzione socioculturale, in quanto si genera e si modifica continuamente nell’alveo della società e della cultura entro cui si colloca; in virtù di ciò, un ideale estetico è destinato a mutare in relazione al trasformarsi delle mode, dei costumi e delle consuetudini sociali e culturali.
In tale prospettiva, si rende possibile rilevare come ogni epoca storica ha avuto un peculiare modello di bellezza ideale, documentato dalle fonti letterarie e iconografiche che hanno immortalato figure femminili divenute famose.
Inoltre, spesso le forme del corpo femminile hanno costituito simboli riconoscibili entro lo specifico contesto socio-culturale di riferimento.
In tal senso, si riscontra come per molti secoli sono stati attribuiti alla figura corporea formosa o viceversa esile significati socioculturali connessi al benessere economico o, contrariamente, alla povertà. In riferimento a ciò, come verrà argomentato nel prosieguo del lavoro, emerge come nei secoli passati in Europa, ed ancora attualmente in alcuni Paesi poveri, i corpi femminili morbidi e abbondanti erano riconosciuti come evidente simbolo della ricchezza della donna considerata, in quanto soltanto le donne ricche potevano permettersi il lusso di non fare attività fisica, quindi di non lavorare, e di mangiare in abbondanza, risultando in tal modo formose.
Viceversa, al corpo esile era attribuito il significato di povertà, in quanto solanto le donne del popolo e le contadine erano magre in quanto mangiavano poco e lavoravano molto.
Per il medesimo motivo, dai canoni di bellezza femminile erano esclusi i muscoli, giudicati come troppo mascolini e caratteristici delle donne impegnate nei lavori manuali.
Anche il candore della pelle è stato per secoli un parametro estetico importante, ovvero più le donne avevano la carnagione bianca più erano considerate belle, ed il pallore costituiva un simbolo di distinzione sociale. Viceversa, la pelle abbronzata era segno di prolungata esposizione ai lavori esterni, manuali e faticosi (cit. A. Caroli).
A fronte di quanto considerato appare evidente la radicale trasformazione avvenuta nei criteri di valutazione e nell’attribuzione dei significati sociali dai secoli passati ai tempi attuali, in cui il corpo di una donna è considerata ‘bello’ soltanto se è magro e scolpito dall’attività fisica. Parallelemante a ciò, attualmente un corpo abbronzato in tutte le stagioni è l’ambizione di moltissime donne, le quali in alcuni casi pervengono ad un autentico disturbo definito ‘tanoressia’.

La bellezza femminile dal Rinascimento all’Ottocento: la formosità come simbolo di bellezza e ricchezza
Lo stereotipo della bellezza femminile nell’Epoca Rinascimentale è la donna dal corpo giunonico, in cui l’opulenza delle forme rappresenta la ricchezza ed il ceto nobiliare di appartenenza.

Tale significato sociale di benessere economico attribuito al corpo abbondante femminile, si ritrova nei secoli successivi, in cui la formosità assurge a simbolo di ceto sociale elevato. I dipinti rinascimentali immortalano ricche nobildonne nelle quali il marcato sovrappeso è orgogliosamente esibito come sinonimo di agiatezza e salute.
Nell’Epoca Rinascimentale, inoltre, numerosi testi delineano l’ideale della bellezza femminile, con una dettagliata analisi di ogni particolare del corpo della donna e con la descrizione dei lineamenti e delle fattezze più apprezzate. Da quanto risulta da tali manuali, la donna ideale deve essere piena, con fianchi larghi, seno prosperoso e bianchissimo, collo e mani lunghe e sottili, piedi piccoli e vita flessuosa; il viso deve essere candido e tondo, il naso diritto, la bocca piccola, la fronte altissima e la gola bianca e liscia; la pelle deve essere rigorosamente bianca, i capelli lunghi e biondi, le labbra e le guance rosse, le sopracciglia scure e gli occhi preferibilmente neri.
Secondo i canoni estetici rinascimentali, dunque, il corpo della donna deve possedere tre attributi di colore bianco, tre rossi e tre neri: la bellezza sta nell’armonia delle parti (cit. A. Caroli).
Durante il Settecento, il modello ideale della bellezza femminile è incarnato dal corpo della regina francese Maria Antonietta, in cui la formosità di seno e fianchi è interrotta dal caratteristico ‘vitino da vespa’, simbolo di seduzione e femminilità. Secondo i canoni del tempo, una bella donna deve avere una circonferenza vita di diametro non superiore ai 40 centimetri, al punto tale da poter essere circondata da due mani di un uomo. A tal fine vengono costruiti busti e corsetti, usati per mantenere eretta la colonna vertebrale e conferire al busto la classica forma a 8, che esalta seno e fianchi.
Anche durante l’Ottocento il prototipo della ricca signora borghese ha forme morbide, spalle rotonde e piene, volto paffuto, tranquillo e sorridente; la sua bellezza risiede soprattutto nelle marcate rotondità, simbolo di benessere sociale e di maternità riuscita (cit. A. Caroli).

La bellezza femminile nel Novecento: il susseguirsi delle ‘rivoluzioni estetiche’
Il Novecento è il secolo in cui si verificano importanti eventi storici che generano radicali mutamenti a livello politico, economico e sociale: è il periodo dei due grandi conflitti mondiali, delle crisi economiche post-belliche, ma anche dell’emancipazione femminile, mediante cui avviene un profondo cambiamento della condizione della donna e del suo ruolo all’interno della società. Conseguentemente a ciò, cambia il suo modo di esibire e nascondere le proprie forme, e vengono abbandonati molti tabù e molti dei pudori che fino a quel momento avevano mortificato il corpo femminile.
Il Novecento, inoltre, risulta essere il secolo in cui si sono verificati i maggiori e più repentini cambiamenti relativamente ai canoni di bellezza: è stato osservato che più o meno ogni 10-15 anni si è verificata una ‘rivoluzione estetica’, che ha condotto all’affermazione di nuovi modelli di bellezza femminile, di nuove mode e di nuovi stili di vita.
In tale direzione assume rilevanza evidenziare alcuni periodi storici in cui si sono affermati canoni estetici differenti e talvolta opposti per ciò che concerne il binomio magrezza-formosità connesso al corpo femminile. Come verrà esposto in seguito, infatti, la formosità e le rotondità delle donne ottocentesche, sono soppiantate negli anni ’20 dall’ideale di donna magra, androgina, a cui tuttavia si oppone nuovamente l’abbondanza delle forme della donna del periodo fascista.

Dalla ‘garçonne’ androgina degli anni Venti alla ‘politica del corpo femminile’ nel periodo fascista
Dopo il periodo di crisi economica conseguente alla I° guerra mondiale, gli anni Venti inaugurano una nuova epoca di benessere sociale.
In tale contesto storico, i cosiddetti ‘Anni ruggenti’, l’ideale di bellezza femminile cambia profondamente: si afferma la cosiddetta garçonne, definita in tal modo a causa del mascolino taglio dei capelli, che, per la prima volta nella storia, possono essere corti anche per le donne.

Lo stereotipo della bellezza femminile ha un corpo asciutto, magro, con caratteri androgini, asessuato, con seno e vita adolescenziali e fianchi stretti. Le donne iniziano a condurre una vita più dinamica ed a praticare sport, sia per il benessere fisico che per migliorare l’aspetto del corpo. Se fino a questo momento nei canoni di bellezza femminile erano banditi i muscoli, indice di mascolinità o di lavoro manuale, e le forme dovevano essere morbide e rotonde, negli anni Venti anche nelle donne si comincia ad apprezzare il fisico atletico.
Le nuove icone di bellezza, senza curve, magre e mascoline, simboleggiano l’aspirazione all’uguaglianza e parità tra i sessi (cit. A Caroli).
Inoltre, alla fine degli anni Venti la pelle femminile abbronzata assume un significato nettamente differente rispetto al passato, ovvero non più simbolo di appartenenza ad una classe sociale inferiore, ma espressione di salute e benessere fisico. In tale direzione, Coco Chanel induce le donne ad abbandonare l’ombrellino che proteggeva la pelle dai raggi solari, ad eliminare i guanti e ad accorciare le gonne.
A dettare i canoni della bellezza non sono più le nobildonne rappresentate nei ritratti, bensì le affascinanti dive del cinema muto.
Tuttavia, tale ideale di donna androgina appare abbandonato negli anni Trenta in cui, in una società duramente provata dalle ripercussioni della crisi della Borsa americana del 1929, la bellezza mascolina degli anni Venti viene considerata superata.
Torna in auge l’ideale estetico della donna procace, incarnata dalle grandi dive di Hollywood, come “la divina” Greta Garbo, e le donne avvertono il desiderio di evidenziare le loro forme.
In Italia il regime fascista rivolge al corpo della donna precisi dettami, un’autentica ‘politica del corpo’, in cui la volontà di Mussolini di assicurare all’Italia una nuova stirpe, robusta, sana e forte conduce a promuovere un programma salutistico-igienico rivolto prevalentemente alle donne, in quanto possibili madri e quindi prime responsabili del miglioramento della razza.
Il regime impone l’omologazione del modello femminile: la donna italiana deve avere forme prosperose e fianchi ampi, ed essere forte e robusta, in quanto si ritiene che solo così sarà una vera madre e una buona moglie, in grado cioè di occuparsi della casa e della famiglia.
La battaglia contro la donna magra, pallida e sterile si palesa ufficialmente nel 1931 quando il capo dell’Ufficio stampa di Mussolini ordina ai giornali di eliminare tutte le immagini che mostrano figure femminili snelle e dal piglio mascolino.
La magrezza femminile diventa per Mussolini un bersaglio da distruggere, fino al punto di imporre ai medici di intervenire a difesa della formosità, contro la moda della magrezza.
La propaganda fascista continua ad associare salute e prolificità con le donne bene in carne, tentando di reprimere l’emancipazione e il cambiamento dei costumi sociali.

Dalla donna ‘maggiorata’ degli anni Cinquanta alla ‘donna grissino’ degli anni Sessanta
Gli anni Quaranta sono un periodo di crisi e di ristrettezze economiche, connesse alla Seconda Guerra Mondiale, in cui il modello di bellezza femminile è quello della donna formosa, dalle curve procaci. In tal senso, è possibile evidenziare come il modello estetico costituisce una reazione alla grave carenza di cibo che caratterizza questo periodo.

E’ in tale epoca di guerra e ristrettezze economiche che negli USA compaiono su molte riviste le prime pin-up, procaci ed ammiccanti, sulla scia della donna simbolo della bellezza del periodo, Rita Hayworth, soprannominata ‘l’atomica’ per le sue curve esplosive.
Anche a seguito del termine della guerra, i canoni estetici femminili prevedono una donna formosa e sensuale, con fianchi e seno abbondante, come simbolo della rinascita economica dopo la fame della guerra. E’ l’epoca delle ‘maggiorate’, quali Brigitte Bardot e Marilyn Monroe, le cui misure seno-vita-fianchi 90-60-90 rappresentano la formula della bellezza degli anni Cinquanta. Anche in tale contesto, dunque, le curve femminili costituiscono la metafora del desiderio sociale di benessere economico.

L’ideale della ‘maggiorata’ americana subisce tuttavia un drastico cambiamento negli anni Sessanta, periodo segnato da importanti rivolte sociali, dalla contestazione giovanile al movimento femminista. In questi anni si verifica un’altra grande rivoluzione estetica, che si protrarrà per tutti gli anni Settanta: si afferma un nuovo modello femminile in totale controtendenza rispetto a quello del periodo precedente, ormai sentito come obsoleto e costrittivo.
Si diffonde la cultura dello sport e il fisico femminile da morbido e burroso diventa sottile, longilineo, tonico e scattante, similmente al modello della donna degli anni Venti. Un’icona dell’epoca è Audrey Hepburn, la diva bon ton per eccellenza, che, con la sua eleganza sobria e raffinata ed il suo fisico longilineo e filiforme, che incarna tutti i codici estetici e stilistici degli anni Sessanta.
La trasformazione dell’ideale di bellezza femminile verso canoni filiformi è connessa con il successo della modella inglese Twiggy, magra ai limiti dell’anoressia. Con lei nasce la ‘donna grissino’(cit. A. Caroli).

Dagli anni Novanta al terzo millennio: i significati psicologici della magrezza
Gli anni Ottanta vedono un rinnovato amore per le forme: ritornano le canoniche misure 90-60-90 e si ha un nuovo boom di seni esuberanti e di curve procaci, ancora una volta abbinati ad un giro vita sottile.
Tuttavia, a partire dagli inizi degli anni Novanta si assiste ad un riaffermarsi della magrezza come ideale estetico, a cui vengono attribuiti qualità e significati psicologici, ovvero il corpo esile e scattante viene indissolubilmente associato a sicurezza in sé, determinazione, autoaffermazione sociale. In tal senso, si crea un’associazione tra le forme del corpo filiforme ed il cambiamento del ruolo sociale della donna che, da madre e moglie, inizia ad impegnarsi maggiormente nella carriera professionale, alla ricerca del potere economico e del successo (cit. A. Caroli).

Questa associazione tra magrezza ed emancipazione sociale femminile si afferma in maniera ancora più stabile nel terzo millennio in cui, nella società globalizzata, i mass media diffondono per molto tempo il concetto di bellezza equivalente a magrezza, costruendo un intenso quanto deleterio ‘bombardamento mediatico’ focalizzato sui temi riguardanti immagine corporea, mediante l’ossessiva pubblicità di corpi perfetti ma irrealistici.
Negli anni 2000 le industrie dell’alta moda diffondono un modello di donna sempre più esile e sottile, probabilmente in relazione alla necessità di far risaltare il vestito rispetto alla modella: dopo le carismatiche top-model degli anni Ottanta, le modelle diventano sempre più scheletriche e strereotipate.
In tale contesto storico-culturale, dunque, le icone di bellezza femminile sono le modelle che, altissime androgine e imbronciate, diventano famose come le grandi attrici hollywoodiane, ammirate e imitate dalle adolescenti degli anni 2000. Parallelamente a ciò, le riviste patinate femminili impongono tale prototipo estetico come simbolo della donna di successo, vincente.
I giornali di moda mostrano quasi esclusivamente immagini stereotipate di corpi magrissimi, emaciati, che risultano generalmente irrealizzabili per la maggior parte della popolazione femminile. La grave magrezza e il rigido controllo del peso vengono apertamente “glorificati” mentre la formosità è svilita al punto da essere definita non salutare, immorale e brutta.
Inoltre, le immagini autentiche delle modelle vengono spesso marcatamente modificate mediante un astuto foto-ritocco al fine di renderle ancora maggiormente conformi all’ideale di ‘perfezione’ propagandato.
L’ideale di magrezza eccessiva non è presentato dai media come irraggiungibile e pericoloso, non viene, infatti, esplicitato il ‘segreto’ che si cela dietro quei corpi stereotipati, non viene svelato l’esercizio fisico eccessivo e le restrizioni alimentari patologiche a cui le modelle si sottopongono quotidianamente, né le astute operazioni di trucco e di fotomontaggio che costruiscono l’artificiosa immagine finale. I media, viceversa, illudono le donne che sia possibile mediante diete ed esercizio fisico raggiungere e mantenere facilmente l’ideale da loro imposto, in ogni caso. Viceversa risulta ormai scientificamente riconosciuto come il set-point fisiologico di ciascun individuo è solo parzialmente modificabile. In tale direzione il feroce conflitto tra i messaggi ossessivi dei mass-media e la realtà del proprio corpo ha condotto inevitabilmente sempre più donne all’insoddisfazione ed al disprezzo verso la propria immagine corporea.
Durante gli anni ’90-2000 nei messaggi dei media si cela non solo un pericoloso imbroglio, ma anche un ricatto psicologico in cui viene proclamata la necessità di aderire a quel prototipo al fine di riuscire ad ottenere successo e apprezzamento sociale.
L’ideale corporeo imposto dai media, dunque, riguarda non solo l’aspetto estetico, bensì è associato a significati sociali più profondi, intensamente ricercati soprattutto dalle ragazze adolescenti le quali spesso appaiono intrappolate in un intenso conflitto con il proprio corpo, innescato dal continuo confronto con gli altri e dall’intenso bisogno di approvazione sociale. In tal modo i media hanno contribuito a consolidare uno stereotipo pericoloso interiorizzato ed adottato da molte donne come standard in base a cui confrontare e giudicare il proprio corpo. E’ in tale contesto socio-culturale che spesso le ragazze pervengono alla conclusione che le proprie difficoltà personali e sociali sono inequivocabilmente collegate al loro peso corporeo e che, dunque, il raggiungimento della magrezza rappresenterà ‘la soluzione magica’ in grado di migliorare notevolmente la propria autostima, di garantire la popolarità e il giudizio positivo degli altri.

Quando la ricerca della magrezza si trasforma in psicopatologia: caratteristiche cliniche in Anoressia e Bulimia
Alla luce di quanto sopra argomentato, pertanto, emerge come nel corso degli ultimi anni le variabili socioculturali hanno assunto un ruolo centrale nei modelli patogenetici di Anoressia e Bulimia, in quanto l’esposizione alla continua pressione sociale verso la dieta, al fine di conformarsi all’ideale estetico di magrezza, pone le donne di fronte ad un rischio maggiore di sviluppare un grave Disturbo Alimentari. In tal senso è stato rilevato chiaramente come a partire dal periodo storico in cui il canone sociale di bellezza è stato ancorato alla magrezza eccessiva si è assistito ad un notevole incremento dell’incidenza e della prevalenza dei Disturbi Alimentari nella popolazione. Alcuni studi hanno evidenziato che i messaggi contenuti nelle riviste sono un elemento importante per lo sviluppo di un’immagine corporea negativa; riguardo a ciò, ad esempio, è stato rilevato che la semplice osservazione per alcuni minuti di fotografie di modelle magre da parte di ragazze adolescenti produce livelli maggiori di depressione, stress, vergogna, senso di colpa, insicurezza e insoddisfazione corporea di quanto non faccia l’osservazione di modelle di taglia media.

L’ossessione per la magrezza eccessiva e lo sforzo di seguire diete rigidissime, nello strenue tentativo di conformare il proprio corpo all’ideale culturale estetico attualmente ancora in auge, ha condotto molte adolescenti a scivolare in gravi forme di psicopatologia, l’Anoressia e la Bulimia, caratterizzate dalla presenza di pensieri e comportamenti disfunzionali nei confronti del peso e delle forme corporee, notevolmente dannosi per la salute psichica e fisica.
Nei Disturbi Alimentari la persona presenta una valutazione di sé centrata principalmente sul suo peso corporeo, sulla forma del suo corpo e sulla propria capacità di controllare questi ultimi.
In conseguenza di tali criteri di valutazione del proprio valore, si manifesta un’intensa preoccupazione per il proprio peso corporeo, la quale può presentarsi mediante modalità differenti: mentre alcune persone affette da DCA si pesano ossessivamente, allarmandosi anche per le più piccole variazioni ponderali, viceversa altre rifiutano di conoscere il loro peso, mettendo in atto un autentico “evitamento” della bilancia. In entrambi i casi, le persone sono terrorizzate dall’aumento del loro peso.
Un comportamento simile si riscontra nei confronti della forma del corpo: molte pazienti controllano e scrutano continuamente il proprio corpo, focalizzando l’attenzione su alcune parti di esso, mentre altre evitano categoricamente di guardarsi allo specchio, sentendosi “grasse” e “orribili”, nonostante il loro oggettivo reale sottopeso o normopeso.
Dal terrore dell’aumento di peso consegue l’alterazione del comportamento alimentare caratteristica del disturbo, che si manifesta attraverso una restrizione dietetica determinata da regole alimentari estremamente rigide e inflessibili, le quali disciplinano il “quanto” e il “cosa” si deve mangiare.
Nella maggior parte dei casi, le regole dietetiche a cui si sottopongono le pazienti con DCA impongono una drastica riduzione della quantità totale di cibo ingerita, e vietano nettamente una grande quantità di alimenti, i cosiddetti “cibi proibiti”, costringendo la persona ad un’alimentazione progressivamente sempre più limitata ai pochi alimenti consentiti.
L’alterazione del comportamento alimentare ostacola gravemente le relazioni sociali, portando la persona ad un progressivo isolamento. Mangiare in pubblico può diventare fonte di forte ansia, le situazioni di festa sono fortemente temute per la previsione di dover mangiare di più, e di fronte ad altre persone. L’abbuffata compulsiva è un sintomo peculiare nei Disturbi Alimentari, correlato alla costante restrizione dietetica cognitiva (tentativo di limitare il cibo ingerito, con o senza reale ipoalimentazione) a cui la persona si sottopone quotidianamente.
Il costante pensiero fisso sul cibo, sulle calorie e sulla forma del corpo diventa presto un’ossessione che invade la vita quotidiana della persona, vittima della tirannia della restrizione dietetica ma incapace di ribellarsi, in quanto nonostante la sofferenza che si infligge combattendo quotidianamente una dolorosa battaglia contro i morsi della fame, essa considera l’obbedienza a regole dietetiche “estreme” non come un comportamento psicopatologico e pericoloso per la propria salute, bensì come dimostrazione di “autocontrollo”. Viceversa, anche una minima trasgressione a tali regole, lungi dall’essere configurata come l’inevitabile emergere dell’istinto biologico della fame, viene giudicata come “un errore gravissimo”, come la prova della propria “mancanza di forza di volontà”, innescando in tal modo un’autodenigrazione durissima che alimenta la scarsa autostima, la quale spesso costituisce proprio l’origine del problema alimentare.

Articolo pubblicato in Pol.it Rivista di Psichiatria, gennaio 2015

AUTORE: Dott.ssa M. Gaudio – Psicologa Psicoterapeuta
sedi: Mirano (Venezia) – Padova

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Dott.ssa M. Gaudio

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Le persone pensano ed agiscono sulla base dei significati che gli eventi hanno per loro, pur non avendo sempre consapevolezza di ciò che fa emergere questi significati

A. Salvini, 1998

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